PAUL BILIGHA: ‘DARÒ ENERGIA ALLA MIA AFRICA’

da news Lega Basket SerieA 09/05/2022

Paul Biligha Allenamento Olimpia Milano Zurich Connect LBA Final 8 2020 Pesaro, 15/02/2020 Foto MarcoBrondi // CIAMILLO-CASTORIA

Ma tu guarda gli scherzi che fa la vita: per cinque anni ti fai il mazzo sui libri, studi di notte e nei ritagli di tempo perché nel frattempo giochi a basket ad alto livello, passi gli ultimi dodici mesi a preparare con cura meticolosa la tesi e al dunque, pof, la pandemia cancella quello che sarebbe stato uno dei giorni più belli della tua vita. «Già avevo dovuto rassegnarmi all’idea di discutere la tesi in videoconferenza, poi non mi è rimasta neanche questa minima soddisfazione. Quattro giorni prima della data fissata mi chiama la segreteria dell’università e mi dice: signor Biligha, ci dispiace, ma sa, con quello che è successo non riusciamo a organizzare la seduta online. È finita che ho passato la giornata a controllare il telefono ogni quarto d’ora, in attesa che mi mandassero il pdf col voto di laurea. È stato come vincere una coppa senza aver giocato la finale».

E il voto, Paul?

«Novantatrè su 110. Non male, dai».

Non male, no, per un giocatore di Serie A che oggi si divide tra l’Olimpia Milano e la Nazionale.

«Ho studiato la sera a casa, di notte in autobus di ritorno dalle trasferte. Quando giocavo a Cremona avevo solo una partita a settimana e quindi molte mattine libere: sfruttavo quelle. Già a Venezia, con le Coppe di mezzo, le cose cambiarono e aprivo i libri anche durante i viaggi in aereo con la squadra. Ventitrè esami, la maggior parte dei quali, sembrerà strano, sostenuti durante il campionato, perché d’estate l’università è chiusa e io in ritiro con la Nazionale. In questa stagione, per fortuna, mi mancava di preparare solo la tesi, perciò il fatto di giocare nella squadra più importante in cui sia stato finora, Milano, non ha inciso negativamente sul mio rendimento negli studi. Anzi, preparare la ricerca mi ha rilassato».

E come hai fatto a dare gli esami a tornei in corso?

«L’università, la Marconi di Roma, ha sedi distaccate: mi presentavo in quella di Milano quando stavo a Cremona, in quella di Mestre quando ero a Venezia».

Ti sei laureato in Agraria.

«In Scienze e Tecnologia Applicate, sezione Agraria. Relatore il professor Bettini, ho dato una tesi sulle energie rinnovabili nella zona subsahariana. Sono nato in Italia, a Perugia, da genitori camerunesi. Quello delle energie rinnovabili in Africa è un tema che sento molto: il futuro di quel Continente passa anche da questo. Per produrre energia elettrica e cucinare, oggi in Africa si continua a bruciare legno e a usare bombole di gas propano, con tutti i rischi connessi: aumento dell’inquinamento e pericolo di scoppi e incendi. La sola energia rinnovabile alla quale si attinge è data dalle turbine d’acqua, ma l’acqua in quelle zone è un bene prezioso e dunque, per preservarne le riserve, in molte città si taglia la luce per alcune ore al giorno. Sfruttare il sole, il vento, l’energia geotermica per la costruzione degli edifici, consentirebbe di risolvere questi problemi. Questo è stato l’argomento della mia testi; questo è il settore nel quale vorrei lavorare in futuro».

In Africa?

«In Africa, in Camerun. Sono e mi sento italiano, ma non dimentico le mie origini. Nei prossimi anni mi concentrerò a sviluppare i miei studi attraverso una serie di Master, a fine carriera potrei trasferirmi in Camerun. Ma non è una cosa che si improvvisa, ci vuole un progetto dietro».

Perché hai scelto Agraria?

«Perché quando sono tornato in Italia, a 16 anni, era troppo tardi per mettermi in pari con il Latino, se mi fossi iscritto al Classico o allo Scientifico. Quindi ho scelto un istituto tecnico a indirizzo biologico, mi è piaciuto e il resto – l’iscrizione all’Università – è venuto di conseguenza».

Passo indietro: quindi nasci in Italia, torni in Camerun e poi di nuovo in Italia?

«Sì. Nell’85 l’uomo che sarebbe diventato mio padre arrivò a Perugia per studiare Economia. Non si è mai laureato, ma aprì un import-export di ceramica e prodotti idraulici tra Italia e Africa. Poi ha portato qui mia madre, si sono sposati e nel ’90 sono nato io. Otto anni dopo siamo tornati in Camerun. Mentre l’aereo scendeva per atterrare, guardai dal finestrino. Vidi solo due colori: il verde delle foreste e il rosso della terra che ricopriva le strade. All’inizio fu dura. A scuola, in Italia, andavo in un istituto di suore, un bell’edificio in pietra; in Camerun frequentavo una scuola pubblica con le assi di legno e polvere dappertutto. Ma l’Africa mi ha lasciato una grande lezione di vita, quella che, al mondo, nulla ti viene regalato».

Una volta hai detto: ho dovuto combattere tutta la vita, non solo in campo. Frase forte, per uno che non ha ancora compiuto 30 anni.

«Sono tornato in Italia da solo, a 16 anni, per inseguire il mio sogno di fare basket. In Camerun giocavo a calcio, terzino destro, ma, alto com’ero, le alette veloci che avevo contro mi sgusciavano via da tutte le parti. Così ho cominciato con la pallacanestro. Un mio vicino di casa era Joel Embiid, oggi ai ’76ers di Phila. All’epoca faceva pallavolo. Dunque, torno in Italia senza papà e mamma, senza nessuno con cui sfogarmi se un allenamento o un compito a scuola vanno male. Mi son dovuto fare forza da solo. Per questo dico che ho lottato tutta la vita. Ma quegli anni mi hanno aiutato a diventare pragmatico».

Il colore della pelle è stata una difficoltà in più?

«No. Pochissima discriminazione, solo casi sporadici, di quelli inevitabili quando giochi o fai il tifo e l’adrenalina ti manda in tilt il cervello».

Paul, hai mai visto il film Indovina chi viene a cena?

«Mi pare di sì, ma non lo ricordo bene».

È la storia di una ragazza bianca che presenta ai genitori il fidanzato nero…

«Capito. No, nessun problema. Ho conosciuto Chiara, la mia compagna e la madre dei miei due figli, a Giulianova, durante un raduno della Nazionale giovanile. Sua madre è una delle persone dalla mentalità più aperta che ho conosciuto in vita mia. Non è attaccata a nessun stereotipo. Da presentarmi c’era solo lei, quindi è andato tutto bene. Anche con gli amici di Chiara: alto e nero, pensavano che giocassi già in A, invece a quei tempi stavo in B2».

Ettore Messina ti ha voluto prima in Nazionale, quando era commissario tecnico, e poi all’Olimpia. Cosa vuol dire lavorare con lui?

«Alzare il livello delle tue prestazioni. Certe volte ti sembra di non essere alla sua altezza, all’altezza delle sue aspettative. Tra tanti stranieri, noi giocatori italiani siamo abituati quasi ad aspettare che ci venga lasciato qualcosa. Lui, al contrario, ti offre la possibilità di guadagnarlo, quel qualcosa. A me, Moraschini e Cinciarini quest’anno è capitato di partire in quintetto anche in Eurolega. Il problema, a volte, è che noi italiani commettiamo più errori degli altri proprio perché abituati ad avere minori responsabilità. E Messina è uno che non tollera gli errori banali».

Canti l’inno prima di una partita con la Nazionale.

«Sempre. Prima del mio esordio in azzurro, quando proprio Messina mi convocò per l’Europeo del 2010, mi veniva la pelle d’oca a vedere in televisione Buffon cantarlo a squarciagola. Giurai a me stesso che, se fosse capitato a me, avrei fatto lo stesso».

Paul, la laurea ti ha reso una persona migliore?
«No. È stata una grande soddisfazione, ma a rendermi migliore ci ha pensato la nascita dei miei figli».

Fabrizio Salvio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *